Oggi è domenica, domenica delle Palme

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Oggi è domenica, domenica delle palme. E’ una anomala domenica delle palme senza processioni e senza festa. Siamo tutti chiusi in casa per rallentare la corsa del coronavirus, che si sta rivelando un subdolo nemico delle nostre vite. Abbiamo paura perché il virus è sconosciuto e senza regole. Terrorizza quando colpisce i polmoni e li rende rigidi e bisognosi di supporto meccanico per poter funzionare e i posti con respiratori artificiali non sempre sono in numero sufficiente. Facciamo i conti con la morte. Facciamo i conti con la morte in solitudine, perché le norme dell’isolamento sono severe e gli spazi ospedalieri sono piccoli e chiusi.

Raffaele Iavazzo

E’ un’umanità fragile quella di questi giorni segnati di quaresima. E abbiamo voglia di distrarci e di essere in contatto, ora che solo essere a meno di un metro è vissuto come pericoloso e altamente sconsigliato. Girano in rete tanti bei messaggi e guardano lontano e guardano in alto. L’alto, che abbiamo presente quando qualcosa in basso ci spaventa. L’alto, che non conosciamo e che ci sembra sempre più distante del necessario, quando il cuore ha paura e si sente bisognoso di ogni più piccola carezza. Come dice un’amica poetessa, è l’ora sesta della nostra vita. Niente è più come una volta. Le strade sono deserte, mute e senza vita. Chiusi i bar, gli uffici, i negozi e i ristoranti. I generi alimentari sono assicurati, ma bisogna andarci alla spicciolata, mantenersi in coda a debita distanza, gli ingressi sono contingentati, a seconda dello spazio del negozio. Non si può andare liberamente in giro, come in un coprifuoco senza orari. Chiuse sono le porte e i cortili vuoti, muti anch’essi, come sospesi in attesa di un giudizio senza appello o anche di una parola liberatrice, finalmente. Questa ambiguità appartiene anche ad altri atteggiamenti. Abbiamo paura dell’altro come di un possibile untore e nello stesso tempo sentiamo un forte desiderio di vicinanza, siamo chiusi dentro un egoistico sentimento protezionistico e ci preoccupiamo se il contagio fa vittime e sappiamo che ne fa e auguriamo che una buona sorte sia sempre dietro l’angolo di ciascuno in un afflato che sentiamo come nuovo, più pulsante di vita buona.

Ci siamo ritrovati comunità. Abbiamo cantato insieme e applaudito in vari flash mob, sono occasioni per non sentirsi soli e in questo modo nutriamo la speranza. Anche i più timidi lo hanno fatto per ringraziare l’umanità che soccorre questa povera Italia, a lungo, cordialmente, in un modo liberatorio e commosso. Pensiamo a medici e infermieri, portantini e autisti, amministratori, polizia, carabinieri e guardie municipali, i volontari della Croce Rossa e tutti quelli che a titolo personale si mettono a disposizione di chi ha bisogno, per una spesa, per un servizio. Alcuni hanno già pagato le conseguenze della loro dedizione. Direttamente. Tragicamente.

Siamo in un’altra dimensione. Tutto il normale di un tempo è un’altra cosa. Di un tempo, ho detto, ed era appena poche settimane fa. Nel giro di pochi giorni siamo in una condizione di coprifuoco come in terra di guerra, e il nemico è invisibile, può essere dappertutto e non lo sai.

La città è spettrale, ma sentiamo una vicinanza che non ha bisogno di parole, condividiamo pensieri e paure, strategie di prudenza, che ci fanno evitare, ma che non ci offendono. Sono proprio le nostre, se l’altro facesse qualcosa che lo mettesse a rischio ci ribelleremmo noi per lui, a protezione sua. Si esce per servizi essenziali, come fare la spesa per mangiare. Quando si torna a casa si sente di avere superato un esame, o scampato un pericolo.

C’è nell’aria un’abitudine a frequentare pensieri insoliti, innanzitutto il pensiero della nostra creaturalità, che ci apre al concetto del limite e della necessità dell’essere solidali, nella perfetta consapevolezza che da soli siamo perduti per tanti bisogni. Lo accompagna l’idea di una diversa gerarchia dei valori, a cominciare dal merito e dalla competenza, che si prendono una facile rivincita rispetto all’eccedenza dell’apparire. Poi diventa palpabile la commozione per i sentimenti di gratitudine per chi ci dà una mano nel momento del bisogno e della solitudine e di prossimità per chi è nella precarietà, come ben sanno tante associazioni di volontariato, ma anche tante amministrazioni, che si sono subito attivate di fronte all’emergenza alimentare. E abbiamo voglia di avere un nuovo rapporto tra noi e con il creato, nella matura coscienza che tutto quello che abbiamo ci è solo stato dato in prestito e che abbiamo il dovere di curare e di restituire.

Raffaele Iavazzo

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